con un testo di Elsa Barbieri
galleria Massimoligreggi in 2023, Catania, Italia
Così vitalmente radicata nel corpo come luogo del dispiegamento dell’essere singolare plurale, la riflessione filosofica di Jean-Luc Nancy ci viene incontro in occasione di abbandonarsi ogni tanto è utile di Fabrice Bernasconi Borzì offrendoci la possibilità di pensare la danza come modalità dell’esistenza. Perché, è lecito chiedersi, di fronte all’opera che riempie lo spazio principale della galleria Massimo Ligreggi, one last tango, usiamo la danza come stimolo? Perché la danza, come il toccare, è movimento e rappresenta in sé la manifestazione del corpo ontologico, unico senso dell’esistenza. Il toccare-danzante che appartiene all’opera, come esperienza estetico-cognitiva, ci consente un abbandono radicale all’esistenza che apre lo sguardo alla singolarità plurale dell’esistente e ci restituisce a pieno il senso della libertà. L’originaria e ontologica necessità del corpo di esistere nel movimento si concretizza nel movimento delle due lame. Esse costudiscono ognuna un silenzio fremente (interrotto dal rumore assordante del loro tocco), un’immagine celata in cui inconsapevolmente e reciprocamente si rispecchiano. Insieme sono metafora di una stabile disarmonia frutto della compresenza di due polarità, movimento e immobilità. Nell’infinitesimale fessura che consente alle due lame di muoversi, di danzare, toccandosi, baciandosi, scontrandosi e allontanandosi – ogni tre minuti – si innesta una trama che ci trascina nel vortice di un pensare serrato e incalzante. Possiamo parafrasarlo? No. Possiamo lasciarci portare dalla lettura con tutto il corpo, toccandolo, come in una danza? Si.
Questo corpus di riflessioni non intende spiegare cosa stiamo guardando bensì guarda al qui ed ora della nostra presenza, esistente, materica e toccante. Nella sala principale, due ritratti di un uomo e una donna convivono con le due lame in movimento. Ricorre la dualità, nella ricerca come nel vissuto di Fabrice Bernasconi Borzì. Nasce in Svizzera, a Ginevra, nel 1989. In un viaggio a ritroso, nel 2018, si trasferisce a Catania, tentando di ritrovare un’alterità culturale peculiare delle sue originali e funzionale al suo lavoro. In lui convivono due cittadinanze, due anime, due attitudini che si pongono alla base dell’equilibrato conflitto tra forze che la sua opera esprime. Convivono, anche e alternandosi, il tempo dell’attività, e dunque del lavoro, a quello dell’otium produttivo, durante il quale come un moderno Marcel Proust, Bernasconi Borzì raccoglie impressioni: «Collegate alle sensazioni che provavo ora (…) queste impressioni si sarebbero rinforzate, avrebbero assunto la consistenza di un tipo particolare di piacere, e quasi di un quadro d’esistenza che avevo, d’altronde, raramente occasione di ritrovare, ma nel quale il risvegliarsi dei ricordi poneva nella realtà materialmente percepita una parte abbastanza grande di realtà evocata, pensata, inafferrabile».
Con quelle impressioni e con il suo fare, prevalentemente semplice, minimale, impulsivo e paradossale, finanche provocatorio e di matrice dadaista, Fabrice crea situazioni sovvertendole. «Dottore in niente», come era solito autodefinirsi, Guy Debord fu il guru di quell’impostazione programmatica storicamente nota come Situazionismo. Egli sosteneva che «lo spettatore più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio». Bernasconi Borzì è il primo spettatore di sè stesso ed è per questo che non dà forma a uno spettacolo che non vuole giungere a nient’altro che a sé stesso, ma al contrario cerca di imprimere un’inversione di marcia allo slittamento generalizzato dall’avere al sembrare: si considera una «spugna e un ladro di idee, ma che lavora sodo per essere, veramente, quello che è». Assumiamo, come anticipato, le lame come metafora di una stabile disarmonia e proviamo a comprenderla. Per farlo dobbiamo tornare indietro di qualche anno: Fabrice, italo-svizzero, in Svizzera porta avanti la sua ricerca animato dalla curiosità e dall’ingegnosità del fare, priva di limiti, mentre per finanziarsi si specializza nel settore degli allestimenti museali, dove sovrana è la distanza dall’opera a garanzia della sua preservazione in sicurezza. Sperimenta, dunque e al contempo, materiali sempre diversi e regole sempre uguali. Cosa ne resta? one last tango, realizzato in maniera del tutto analogica e manuale, senza alcun ausilio informatico e digitale, in cui convivono leggerezza, gioia di vivere e calore, propri della cultura mediterranea, e la freddezza, in termini materici, più vicina al rigore svizzero (parola di chi, con grande amore per entrambe, ha nel suo sangue un buon quarto di origine svizzera).
one last tango è a tutti gli effetti un’opera autobiografica e collettiva, dalla forte valenza ipnotica e insieme presenza tangibile che dice e testimonia, nell’immediatezza, tutto il senso dell’esistente. È autobiografica perché è, e non potrebbe essere altrimenti, riflesso delle personalità del suo creatore, ed è collettiva perché Bernasconi Borzì se ne distacca lasciando che chiunque, a partire da quell’uomo e quella donna ritratti, possano appropriarsene.
È caratteristico di Fabrice creare sovvertendo. Farlo, è lui stesso a dirlo: «richiede forza e calcolo». Appare evidente anche nella serie di opere che completano abbandonarsi ogni tanto è utile. Così per esempio la serie fotografica this could be, riproduce icone e simboli del Sud Italia come anche situazioni quotidiane, di strada, attraverso stampe in quadricromia su carta, incollate su pannelli di legno e montanti di allumino. Il loro carattere provvisorio ci spinge verso il mondo dell’artista: sono fotografie, si, ma sono anche schemi riflettenti che egli usa come configurazioni per installazioni future. In esse egli sviluppa una serie di domande sul senso del fare, dei suoi presupposti concettuali e della sua interpretazione attuale. Come anche nelle sculture della serie antieroi, instabili, discrete, inutili e resistenti a qualsiasi forma di evoluzione. Sembra assurdo, forse, ma è anche estremamente umano. Non siamo forse proprio noi a imbatterci sempre, quando li cerchiamo, nell’incapacità di trovare valori e significati con assoluta certezza?
Un cartello, di quelli che i manifestanti tengono tra le mani e che Bernasconi Borzì realizza con giochi di parole, accompagna la mostra rimarcando che abbandonarsi ogni tanto è utile. Tra il tempo del lavoro e il tempo del sonno esiste il tempo libero dell’otium, uno spazio fluido in cui abbandonarsi significa insorgere, innalzarsi, trascendere. L’abbandono non è rassegnazione, anzi. Esso è azione, è essere totalmente ciò che si è. L’abbandono danza con la determinazione, ci vuole una sconfinata fiducia nella vita per comprenderlo.
Henri-Frédéric Amiel diceva: «Mille passi avanti, novecentonovantanove indietro: ecco il progresso».
Non è vero Fabrice?
Elsa Barbieri